Citando l’enciclopedia Treccani, per ritrovare l’origine dell’espressione dobbiamo andare in America, ai tempi della presidenza Clinton, che la indicava come “la disparità nelle possibilità di accesso ai servizi telematici tra la popolazione americana”. Il tema si è rapidamente diffuso in tutto il mondo per definire una netta cesura tra chi utilizza e chi non utilizza i servizi digitali.

Se, dati alla mano, la principale ragione di esclusione rimane di tipo economico, al secondo posto troviamo componenti sociali: il non possedere le competenze utili ad utilizzare correttamente i servizi digitali ne rappresenta, anche a fronte di una disponibilità economica e tecnologica, una discriminante potente.

La diffusione capillare, anche fuori dalle grandi metropoli, di didattica a distanza e telelavoro hanno riacceso i riflettori sul tema.

A rispondere sono state le grandi aziende che hanno avviato operazioni tecnologiche atte a risolvere il digital divide nelle regioni d’Italia più colpite insieme a una nuova educazione digitale. Uno degli errori più diffusi rimane il voler dare per scontato che soprattutto determinate categorie di persone detengano di default le giuste competenze digitali e altre, al contrario, ne siano sprovviste.

Un assessment delle competenze, anche digitali, è fondamentale per andare a equilibrare i livelli di conoscenza e calibrarne le peculiarità sulla base del ruolo ricoperto.


L’immagine delle città deserte, durante i lockdown da Covid-19, ha impattato fortemente da un punto di vista psicologico e sociologico. Questo perché gli ultimi decenni hanno visto una migrazione importante che ha portato a un rapido spopolamento dei paesi in virtù di un’esplosione demografica delle città che, grazie alla straordinaria capacità di integrazione, sono state protagoniste di un lungo arco di evoluzione culturale, sociale, genetica.

Nell’era post Covid-19 con l’inversione di questa tendenza una delle poche certezze è che le grandi metropoli non torneranno quelle di prima e andranno, rapidamente, incontro a un decremento demografico. La prossima normalità è orientata verso una nuova direzione: sono il lavoro, la conoscenza, i prodotti a raggiungere le persone e non viceversa, riducendo il bisogno di spostamenti per lavorare, studiare, consumare, incontrare le persone. Ecco che in questa migrazione al contrario che vede ripopolarsi i piccoli centri dell’hinterland e dell’entroterra italiano, si fanno strada i temi dello smart working, del telelavoro e del digital divide, vera cartina tornasole delle conseguenze anche professionali del fenomeno.

La deurbanizzazione porta infatti con sé problematiche relative alla necessità di individuare nuovi luoghi da adibire al lavoro a distanza e tecnologie adeguate. Cambia, inoltre, anche il percorso di inclusione e socializzazione professionale: slegato da un contesto sociale vivace e stimolante questo necessita di nuovi momenti per potersi attuare, in linea con le caratteristiche e i bisogni dei professionisti, siano essi già dipendenti che nuove risorse.


Letteralmente, è la risoluzione di problemi complessi attraverso una visione creativa. Facile a dirsi, meno a realizzarsi. Tale visione manageriale si traduce in un metodo ispirato a quello utilizzato dai creativi per la messa a terra di nuove idee che permette di arrivare a soluzioni innovative. Un project manager guida il suo team verso 5 fasi progettuali che vanno dalla definizione del problema fino alla definizione della soluzione. Per farlo, ci si avvale di strumenti tradizionali e digitali che presuppongono il coinvolgimento di persone dalle competenze e attitudini diverse in grado di portare contributi di valore. Più diversificato è il team di lavoro più efficaci saranno le soluzioni.