L’immagine delle città deserte, durante i lockdown da Covid-19, ha impattato fortemente da un punto di vista psicologico e sociologico. Questo perché gli ultimi decenni hanno visto una migrazione importante che ha portato a un rapido spopolamento dei paesi in virtù di un’esplosione demografica delle città che, grazie alla straordinaria capacità di integrazione, sono state protagoniste di un lungo arco di evoluzione culturale, sociale, genetica.

Nell’era post Covid-19 con l’inversione di questa tendenza una delle poche certezze è che le grandi metropoli non torneranno quelle di prima e andranno, rapidamente, incontro a un decremento demografico. La prossima normalità è orientata verso una nuova direzione: sono il lavoro, la conoscenza, i prodotti a raggiungere le persone e non viceversa, riducendo il bisogno di spostamenti per lavorare, studiare, consumare, incontrare le persone. Ecco che in questa migrazione al contrario che vede ripopolarsi i piccoli centri dell’hinterland e dell’entroterra italiano, si fanno strada i temi dello smart working, del telelavoro e del digital divide, vera cartina tornasole delle conseguenze anche professionali del fenomeno.

La deurbanizzazione porta infatti con sé problematiche relative alla necessità di individuare nuovi luoghi da adibire al lavoro a distanza e tecnologie adeguate. Cambia, inoltre, anche il percorso di inclusione e socializzazione professionale: slegato da un contesto sociale vivace e stimolante questo necessita di nuovi momenti per potersi attuare, in linea con le caratteristiche e i bisogni dei professionisti, siano essi già dipendenti che nuove risorse.