La gentilezza ti sembra una cosa imparata da piccoli. Nei sorrisi che vedi, nelle parole educate che ti insegnano a dire, nelle circostanze degli scambi. Parole brevi, un po’ di maniera, che regalano quel pizzico di legittimità al tuo stare nel mondo.

Quando sei giovane, e inizi a lavorare, per esempio, entri fra quelle nuove mura e sorridi. Sorridi anche se fuori dall’ufficio c’era un bel sole e ora tutto è soltanto di un bianco al neon. Non hai ancora incontrato nessuno, nessuno ti ha ancora detto buongiorno, ma tu hai pronto quello stampo sulle labbra, fatto di cliché, fatto di insicurezza, fatto di umiltà.

Sorridi per apparire di carattere morbido. Che già farsi accettare in un contesto nuovo di zecca non è semplice e metterci un muso di buona creanza pare proprio il minimo sindacale.

Ci vuole del tempo, ma poi te ne rendi conto che qualcosa di sottilmente disfunzionale può nascondersi anche in un sorriso a tutti i costi, anche in una serie di parole gentili e burocratiche, quasi pesanti, in fondo inutili.
Ci vogliono molti anni, ma alla fine ne porti a casa contezza: più del sorriso, più della gentilezza a priori, ti accorgi che qualcuno, intorno a te, sorride ma solo per un motivo, non dice parole gentili ma tace per ascoltare e ascolta per avere certezza di poter fare al meglio, avendo recepito ogni informazione utile. In genere, si tratta di qualcuno che sta lì dove sei tu da più tempo. Si sa già quanto vale e quanto pesa la persona che sorride non a casaccio, la persona che sorride per stemperare, agevolare, accogliere, lasciare spazio, collaborare, presagire il buon frutto di un risultato, del lavoro portato a termine con cura. Tu sei giovane, invece, sei una persona nuova e ancora non lo sai come fare a fare le cose e a farle bene, così a volte non ti rimane altro, di appiccicato addosso, di quel sorriso vuoto e traboccante di disagio, che ti ingolfa le guance e che ti fa sentire fuori contesto. Ma cos’altro potresti fare se non essere gentile, all’inizio? Eppure, c’è chi fin da subito ha il coraggio di essere sé stesso, anche nello sguardo scuro che si annida sotto le ciglia che non hanno finito di comprendere, c’è chi non dirà sì, certamente, grazie, subito, ma restituirà una domanda, la scomodità di un dubbio. Che nervi, per qualcuno, gli stagisti che fanno domande! Che vogliono capire, che non si decidono a fare e basta, o almeno, a iniziare a fare, e poi si vedrà. Eppure, sono proprio loro, quelli che hanno compreso il valore di un sorriso lasciato sbocciare solo nella piena consapevolezza di poter essere d’aiuto che hanno recepito davvero che cosa sia la gentilezza, il valore di una parola che contribuisce, il sorriso non giulivo di quella prontezza al fare.

Spiegare cosa debba essere la gentilezza sul lavoro non è semplice. Ci vuole esperienza. È più facile essere gentili quando si ha esperienza. Forse gentilezza è ricordarsene quando si ha a che fare con chi è alla prime armi. O ha in sé ancora qualche tratto di verde e di acerbo, o di insopprimibile insicurezza. E ha la sensazione di non poter fare altro che sorridere; ed essere gentile.